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Cesiav - CsvAurora di Crotone

Centro Studi e Iniziative per l'Associazionismo e il Volontariato


 
 
estratti dal volume edito nel gennaio 2009 dal Csv-Aurora di Crotone

"Volontariato, Terzo settore e questione meridionale oggi"
(scaricabile nel link alla colonna sin. del presente sito)















Volontariato, Terzo settore e questione meridionale oggi. 

di Guido Memo
 
 

(...) 

Importanza di aprire un dibattito sulla realtà meridionale odierna e sul possibile contributo della società civile e del Terzo settore allo sviluppo economico sociale. Lo sviluppo duale dell’Italia, motivazione delle sostanziali differenze tra Nord e Sud.

Il Cesiav ed il Csv Aurora hanno, pertanto, ritenuto utile realizzare un ciclo di semi­nari, che si concretizza in una serie di appuntamenti di approfondimento, che voglia­mo siano alla base di una futura pubblicazione. Se però si vuole fare un’analisi della realtà del mondo del volontariato e del Terzo settore a Crotone ed in Calabria, si deve prima fare riferimento al contesto generale nel quale questi soggetti agiscono e in questo quadro si deve vedere il presente come parte di un processo storico, cercando di comprenderne le dinamiche economico-sociali e il loro sviluppo nel tempo.

Il lavoro che è stato svolto nel corso dei seminari è stato dedicato alla questione me­ridionale, ad alcune caratteristiche di fondo delle regioni del nostro Sud, focalizzan­do in particolare l’attenzione sulla Calabria e sulla provincia di Crotone.

Le analisi economiche sulla realtà del Meridione, prendono di solito come termini di riferimento il reddito pro capite, che è un indicatore di un certo tipo di sviluppo economico e che in Meridione è più o meno pari, in maniera sostanzialmente immutata dagli anni ’50 ad oggi, al 60% di quello del Nord del nostro paese; oppure il Pil, che mediamente è ancor più al di sotto del 60%.

Nell’uno o nell’altro caso, si tratta di indicatori quantitativi che non ci dicono nulla sullo sviluppo qualitativo di una certa società; a tal riguardo, la Svimez[1], che elabora e fornisce dati sulla situazione socio-economica in Meridione, ci ricorda che recentemente è ripresa l’emigrazione dal Sud, e con dimensioni del fenomeno paragonabili a quella degli anni ’60, periodo nel quale si raggiunsero le punte più alte nel corso del novecento, con la differenza, rispetto ad allora, che attualmente la metà degli immigrati sono giovani laureati o diplomati.

Per aprire un ragionamento sul Terzo settore al Sud, non possiamo trascurare come il primo bando emesso dalla Fondazione per il Sud, nella seconda metà del 2007, sia un bando volto ad incentivare gli ambiti della formazione. Questo ci dà l’idea di come la Fondazione abbia sinora poco compreso dei fenomeni profondi e di lungo periodo che segnano la storia e la realtà del Meridione. Infatti al Sud non manca le risorse umane, anche quelle preparate e formate, il problema è che, da sempre, queste risorse umane sono esportate nelle regioni del Centro Nord Italia o all’estero. Basti ricordare i milioni di contadini che hanno lasciato nei decenni le loro terre, dalla Calabria più che da altre regioni, ma anche i tanti intellettuali, nel senso gramsciano del termine, che hanno fatto funzionare le strutture dello Stato italiano. 

Questi dati visti assieme, quelli sul reddito e quelli sull’emigrazione, ci possono ser­vire per un ragionamento di fondo che sorregga l’analisi riguardante la questione meridionale. Come abbiamo visto le differenze nel reddito pro capite tra Nord e Sud, dagli anni ‘50 ad oggi, non sono mutate, ma anche i flussi migratori, che oggi vedia­mo riprendere come negli anni '50 e ‘60. Questi dati testimoniano dello sviluppo duale del nostro paese: uno sviluppo dove una parte, il Nord, detiene i capitali e le strutture produttive ed il Sud la forza lavoro, che esporta con l’emigrazione.

Un tipo di sviluppo, quello duale, che non ha caratterizzato solo l’Italia, (pensiamo, al rapporto tra Irlanda ed Inghilterra, altro classico esempio di sviluppo duale): in questo contesto la denuncia dei meridionalisti sta nel fatto che, sostanzialmente, le forze economico-sociali del Nord hanno sempre operato in maniera tale da non fa­vorire lo sviluppo autonomo del Sud, appoggiando gli strati più conservatori della società meridionale e non quelli più innovativi.

Quindi, quando si parla di Meridione non si può fare a meno di parlare del modello di sviluppo economico che ha segnato il nostro paese, altrimenti non si capisce il permanere della questione meridionale. È cioè vero, come abbiamo visto parlando della nascita delle banche, che praticamente a partire dalla fine del medioevo, o della società feudale, lo sviluppo della moderna economia di mercato profit ha visto come protagonista il Centro-Nord del nostro paese, ma la questione è che lo Stato unitario si è adagiato su queste differenziazioni storiche: cominciò la borghesia che ha guida­to lo stato liberale dopo l’Unità d’Italia lasciando di fatto sopravvivere al Sud rap­porti economici e sociali di carattere semifeudale, perché questo era funzionale allo sviluppo dell’industria del Nord. Con la Repubblica gli investimenti al Sud si sono indubbiamente fatti più consistenti, ma l’afflusso di risorse e gli sforzi per un’indu­strializzazione non sono stati accompagnati da un effettivo rinnovamento democratico dei rapporti sociali e di potere. Persino la riforma agraria, la più classica delle riforme borghesi nelle campagne al fine di abolire il latifondo assenteista, fu ostacolata o realizzata malamente e in parte. Non è un caso che quelle aree del Meridione dove la riforma più si è realizzata ora hanno una dinamica economica e sociale diversa. Eppure la riforma agraria nel secondo dopoguerra su voluta da un forte movi­mento sociale e contadino come più non se ne è rivisti in Meridione, una spinta di rinnovamento sociale che andava colta e che ha prodotto troppo poco i suoi effetti. 

Del resto questo mancato rinnovamento sociale, non solo economico ma anche culturale, è alla base dello sviluppo della criminalità organizzata meridionale negli anni della Repubblica: se il divario tra Nord e Sud nel reddito pro capite è immutato dagli anni ’50, questo non significa che non sia cresciuto anche al Sud, è anzi qua­druplicato come al Nord. Non dimentichiamo che negli anni ’50 ancora una grande parte delle popolazioni meridionali viveva nella miseria: come non ricordare le fa­miglie di tanti contadini poveri che in paese, non nelle campagne, vivevano nelle stesse stanze con i loro animali. Quest’indubbio miglioramento delle condizioni so­ciali, essendo stato necessariamente sostenuto da rilevanti flussi di carattere finan­ziario, sia per gli interventi e i servizi pubblici (per le infrastrutture, la scuola, la sa­nità in particolare), come per le rimesse degli emigrati, ha fatto affluire anche verso ceti sociali parassitari, che appunto erano il problema del Meridione, rilevanti risor­se, rafforzandone il ruolo sociale ed economico. I vecchi latifondisti sono scomparsi, un po’ per la parziale riforma agraria, ma soprattutto perché quel modello di econo­mia agraria non reggeva più il mercato, non era concorrenziale. Le strutture di con­trollo sociale di quel mondo sono però sopravvissute, rinnovandosi nelle loro attività ma non nei modelli sociali e culturali. Cosa sono le varie mafie se non questo? I ma­fiosi erano i campieri in Sicilia, i guardiani e i custodi violenti di quell’ordine feuda­le che ancora dominava nell’ottocento nelle campagne siciliane. La mafia siciliana viene da lì, non viene dalla città, qui ci arrivò successivamente, ma in fondo ancora per buona parte del novecento il cuore della sua struttura di potere restò lì, in paesini dell’interno apparentemente secondari e insignificanti. 

Diverse le caratteristiche locali e sociali, ma non il processo storico per quanto ri­guarda ndrangheta e camorra: clan che nella società semifeudale che non fu estirpata avevano un compito di controllo dell’ordine sociale costituito. Non si potrebbe spie­gare altrimenti il controllo del territorio, la struttura capillare sociale che si accom­pagna alle mafie, anche di mutuo soccorso, di governo di attività economiche e so­ciali. I reasti commessi e denunciati sono in realtà mediamente di più in alcune regioni del Nord, come Lombardia ed Emilia Romagna, che al Sud. La peculiarità della criminalità organizzata meridionale non è quantitativa, ma qualitativa, nel ruolo della criminalità, nella specificità dei reati, il cui simbolo è il “pizzo”: la tassa che i commercianti e chi svolge attività produttive deve pagare, alla criminalità e non allo Stato. Cos’è questo, come sosteneva Santi Romano[2] il grande giurista palermitano, se non un ordinamento giuridico di fatto, alternativo a quello dello Stato, uno Stato nello Stato.
In conclusione: io sostengo che la Questione meridionale sia tutt’ora una grande questione nazionale, i cui termini sono in parte cambiati, sia nel territorio, sia nella maniera in cui oggi dobbiamo pensarla, ma è tutt’ora una questione viva, sia per i problemi che causa alle popolazioni del Meridione, si pensi all’emigrazione e alle mafie, sia perché ci spiega una caratteristica di fondo della nostra formazione statale. 
Sono ben consapevole che il parlare oggi di Questione meridionale ha un sapore for­temente retrò. Questo per diversi motivi, alcuni con le loro buone ragioni:
1.perché tutto ciò che sa di storia, che appartiene alla storia del novecento, oggi non gode di grande credito, 
2.perché le politiche meridionalistiche attuate nel periodo di storia repubblicana che ci sta alle spalle sono screditate e alla Questione meridionale nell’ultimo quindi­cennio è stata contrapposta la Questione settentrionale
3.perché dallo stesso Meridione è venuta una messa in discussione dei termini della Questione meridionale

Partiamo dalla prima questione, dal fatto che tutto ciò che sa di storia, che appartiene alla storia del novecento, oggi non gode di grande credito. 

L’Italia, ma anche il mondo, a partire dagli anni ottanta è come se avesse pensato che nella storia si può disinvoltamente voltare pagina: si è dichiarata la “morte delle ideologie”; la fine delle “grandi narrazioni storiche” e di ogni filosofia della storia, la fine della storia stessa da parte di qualcuno; il trionfo del libero mercato e dell’e­conomia profit non solo rispetto alle rigide economie di piano sovietiche, ma anche rispetto a qualsiasi intervento regolatore e di programmazione economica da parte dello Stato di carattere “keynesiano”, largamente praticato negli anni precedenti in Italia, come in tutte le economie di mercato; la “crisi fiscale dello Stato” e quindi la drastica riduzione non solo delle politiche assistenziali, ma anche dello Stato sociale, del welfare state, dello stato del benessere, che non era certo un’invenzione sovieti­ca; e, infine con la fine della guerra fredda, l’affermazione di un nuovo ordine mon­diale e di un mondo finalmente pacificato dall’abolizione del contrasto internaziona­le più grande.

Per l’Italia tutto ciò ha significato l’abbandono e il discredito su una parte grande delle politiche attuate dal dopoguerra agli anni settanta, che erano state avanzate, con diverse varianti, da quello che allora si chiamava l’arco costituzionale, l’insieme delle forze e delle culture politiche che avevano scritto il patto costituzionale e che andavano dal Pci alla Dc, dal Psi ai socialdemocratici e al Partito repubblicano di La Malfa, che fu fiero sostenitore delle politiche di programmazione economica, coinvolgendo larghe parti dello stesse forze liberali. Si aggiunga che tutto ciò è avvenuto in Italia insieme ad una crisi del sistema politico e dei partiti che non ha confronti in Europa occidentale, la parte del continente per storia e politica più affine a noi.

Che in questo quadro anche le politiche meridionalistiche, di intervento strutturale in Meridione, cadessero sotto i magli della critica demolitrice dell’intervento pubblico era inevitabile, non che non vi fossero motivi validi di critica, ma qui si ha la netta sensazione che con l’acqua sporca si è gettato via anche il bambino.

Del resto una cosa del tutto simile è avvenuta a livello internazionale, sono politiche dopo la Thatcher e Reagan[3] che hanno ottenuto, certamente in versioni più o meno attente ai problemi sociali che si creavano, grande affermazione, in fondo sia destra come a sinistra, che però abbiano mantenuto le promesse tanto sbandierate è molto dubbio, in particolare hanno fallito nell’obbiettivo più importante: quello di garantire uno sviluppo economico sostenuto, nulla di paragonabile a quello che i francesi chiamano i “trent’anni gloriosi”, che dal secondo dopoguerra alla metà degli anni settanta hanno visto uno sviluppo economico non più eguagliato, in particolare in Europa, ma anche in parte negli Usa. Si da il caso che quei trent’anni coincidono con rilevanti politiche pubbliche di intervento nell’economia, come si da il caso che l’unica area del modo che ha conosciuto uno sviluppo economico rilevante dalla metà degli anni settanta sia quella che dell’Oriente, che non ha mai fatto proprie le politiche neoliberiste. O meglio: le ha fatte proprie nell’inserirsi nel mercato mondiale delle merci e della finanza che si sviluppava con l’abbattimento delle politiche protezionistiche, ma non le ha mai fatte proprie sul piano interno, nei rapporti tra stato ed economia[4], respingendo senza troppe polemiche il Washington consensus[5].

Tacciamo poi qui, non essendo argomento all’ordine del giorno nel nostro ciclo, del­le non mantenute promesse sul piano del nuovo ordine internazionale, che doveva far seguito alla fine della guerra fredda e al sistema bipolare: la rinuncia al tentativo di dare un’interpretazione e un governo politico razionale ai laceranti problemi del mondo ha prodotto più caos di prima, con lo sviluppo di fondamentalismi religiosi, etnici, localistici, e infine politici: visioni al fondo infantili e autoreferenziali che rinunciano in partenza al difficile compito di cercare di capire il modo, la storia, l’altro, e che accrescendo l’incomprensione reciproca hanno avuto l’effetto di aumentare il caos.

Così come non è qui il luogo e non abbiamo qui il tempo di esaminare gli eventi che si sono susseguiti nel corso di quest'autunno, che hanno visto un crac del sistema finanziario e bancario che non ha eguali neppure nella crisi del 1929, che ebbe sull'economia reale d'allora conseguenze pesantissime, ma non fallimenti bancari paragonabili a quelli in corso. E' una crisi strutturale delle politiche economiche liberiste quella che abbiamo sotto gli occhi in questi mesi, che solo le politiche di intervento degli Stati hanno impedito per ora che abbia le stesse conseguenze drammatiche sull'economia reale come nel 1929. Ma da un lato la crisi finanziaria non sembra arrestarsi, visto che le borse continuano a calare, mentre conseguenze molto rilevanti sull'economia reale cominciano a farsi sentire pesantemente.

Sulle ragioni di questa crisi strutturale del sistema capitalistico contemporaneo e sull'origine delle politiche neoliberiste, spero se ne possa parlare in altra occasione[6], qui ci limitiamo a segnalare che coloro che avevano negato qualsiasi validità all'intervento regolatore delle politiche economiche pubbliche, ora si sono trasformati tutti in ardenti sostenitori dell'intervento dello Stato, secondo la nota ricetta di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti, per salvare le banche che hanno speculato in questi anni.

Insomma, quanto al primo punto qui discusso, è ben vero che la storia del ‘900 è an­che una storia tragica, che ha visto lo scoppio di due guerre mondiali con decine di milioni di morti, ma evitiamo di fare come colui che «con l'autolesionismo proprio degli ignari e degli ignavi, procede alla liquidazione di una eredità troppo pesante per le sue gracili spalle»[7].

Chiudo sulle motivate critiche sull’utilità di porre all’ordine del giorno ancora la Questione meridionale, con delle brevi considerazioni riguardanti le ultime due questioni: da un lato il discredito delle politiche meridionalistiche attuate nel periodo di storia repubblicana che ci sta alle spalle e l’emergere della Questione settentrionale, e dall’altro lato il fatto che dallo stesso Meridione è venuta una messa in discussione dei termini tradizionali della Questione meridionale

La messa in discussione delle politiche meridionalistiche attuate dai governi demo­cristiani prima e da quelli di centro sinistra successivamente, non può significare la messa in discussione di conseguenza di ogni politica meridionalistica. Già parlando della mafia abbiamo accennato ai limiti di quelle politiche che hanno fatto affluire risorse anche rilevanti, ma senza contestualmente puntare ad introdurre elementi di un effettivo rinnovamento democratico dei rapporti sociali e di potere. Questo mancato rinnovamento sociale, non solo economico ma anche culturale, le pratiche clientelari largamente messe in campo, hanno portato al discredito di quelle politiche, che emblematicamente possiamo riassumere ricordando la Cassa per il Mezzogiorno, ma  anch’esse non sono affatto state tutte da buttare via. 

Del resto dei limiti politici di quell’intervento ci fu ben presto consapevolezza, e da quei limiti scaturì anche la visione pessimistica di Pasquale Saraceno[8] negli ultimi anni della sua vita, interamente dedicata allo sviluppo industriale ed economico del Mezzogiorno. Nell’introduzione al Rapporto Svimez 1990, scriveva che la moder­nizzazione in meridione è solo apparente: con essa convivono fenomeni ereditati da «un lontano passato lazzaronesco e feudale»: sopraffazione e asservimento, commi­stione tra pubblico e privato, scambio di protezioni e fedeltà personali. «Questa con­vivenza di modernizzazione apparente e di residuati socio-culturali del passato è il terreno comune di coltura dell’assistenzialismo, della corruzione e della piccola e grande criminalità». Con quegli interventi non si era però dato ascolto ai classici del meridionalismo, la costruzione di un tessuto civile (i rapporti sociali e i comporta­menti amministrativi) e che oggi si declina come capitale sociale non fu al centro di quegli interventi, mentre questo problema non era sfuggito a uomini come Salvemi­ni, Dorso, Gramsci o Sturzo. La critica che da essi fu sollevata era appunto quella che le forze sociali più avanzate del Nord, a proposito o involontariamente ma sem­pre a vantaggio del Nord, con le loro politiche avevano rafforzato le categorie sociali conservatrici e parassitarie meridionali, con grave danno per i contadini, i lavoratori, i gruppi sociali progressisti e imprenditivi, dal cui sviluppo soltanto sarebbe po­tuto scaturire un processo autonomo di sviluppo del Mezzogiorno[9]. Ciò avvenne anche con la riforma agraria, che negli anni ‘50 faceva seguito alle lotte contadine per la divisione del latifondo, furono divise spesso non le terre migliori, furono creati appezzamenti troppo piccoli e solo in alcuni casi fu successivamente accompagnata con il sostegno alla cooperazione, contrariamente allo spirito dei Decreti Gullo del 1944[10]. La cassa per il Mezzogiorno, inoltre, spesso ha sostenuto la realizzazione di infra­strutture materiali necessarie, ma alimentando sistemi di potere clientelare che in quella fase si rafforzarono. Infine il sostegno all’insediamento di complessi indu­striali provenienti dall’esterno, senza promuovere un autonomo sviluppo locale, ha creato, quando si sono effettivamente insediati o non hanno chiuso poco dopo, “cat­tedrali nel deserto”, che benché ancora esistenti, come a Taranto o a Gela, non hanno creato un settore produttivo “indotto” locale.
In realtà la stessa esperienza italiana in altre regioni nello stesso periodo ci dice che la cosa più importante è far crescere in loco le condizioni  istituzionali, sociali, di risorse umane e imprenditoriali e non tanto immettere capitale finanziario o addirittura capile fisico, capitale fisso. A questo scopo è necessario partire dalle risorse e dalle capacità locali, valorizzandole.
Da questo punto di vista quindi hanno ragione quegli studiosi, che negli ultimi anni hanno messo in discussione la Questione meridionale come era stata concretamente declinata nelle politiche nazionali: occorre partire dalle peculiarità e dalle caratteri­stiche del Meridione valorizzandone le potenzialità positive[11], dalle sue tradizioni culturali e sociali, dalle caratteristiche del suo territorio e dalla sua collocazione nel Mediterraneo, non si deve fare una brutta copia del Nord. 

Un'ultima considerazione su Questione meridionale e Questione settentrionale. L'abbattimento di numerosi confini per quanto riguarda la circolazione delle merci, la messa in discussione, negli oltre vent'anni che ci stanno alle spalle, da parte delle maggiori autorità economiche e monetarie a livello internazionale del ruolo regola­tore e programmatore dello Stato in economia, si è accompagnata alla messa in di­scussione del ruolo concreto degli Stati territoriali: da qui l'emergere in  diverse real­tà locali di posizioni politiche di contestazione dell'unità degli stessi stati territoriali. Il processo è stato più evidente negli Stati dell'Est Europa, dove contemporaneamen­te era in corso una transizione da un sistema sociale-politico-economico ad un altro e dove le fratture interne erano più forti, di carattere religioso e culturale come nella Repubblica federativa iugoslava, o di carattere nazionale come nell'ex Urss o nella Repubblica federativa russa, o in Cecoslovacchia. Fenomeni simili, anche se più at­tenuati, non sono però mancati in Europa occidentale, uniti a fenomeni di xenofobia: si pensi alle rinnovate tensioni tra valloni e fiamminghi in Belgio, alle spinte au­tonomistiche in Gran Bretagna o localistiche in Carinzia. Non è un caso che dove lo stato territoriale ha trovato nuovo slancio, come in Spagna dove ancora si vive la primavera del dopo franchismo, storici problemi di separatismo abbiano trovato tutto sommato un'attenuazione.

Il fenomeno della Lega Nord in Italia di inscrive in queste tendenze ed evidenzia dal punto di vista territoriale e dell'economia nazionale la natura duale della formazione statale italiana: in un certo senso la Questione settentrionale è il rovescio della me­daglia della Questione meridionale, una frattura che sta all'origine della nostra for­mazione statale e che lo sviluppo successivo ha sostanzialmente ribadito. Le propo­ste di “Stato federale” che insistentemente sono sorte in questi anni, se da un lato si incontrano con una presenza forte nella nostra storia delle autonomie locali, l'Italia è “il paese delle cento città”, dall'altra si sono arenate nella povertà di una proposta istituzionale e culturale che non tende tanto a potenziare le capacità locali, ma più semplicemente a spostare risorse verso la parte più ricca del Paese, il Nord sede delle attività finanziarie e produttive nazionali, che sono cresciute ieri utilizzando l'eserci­to di mano d'opera costituito dagli emigranti del meridione d'Italia e oggi provenienti da diverse parti del mondo. Non è un caso che tutto ciò si accompagni a posizione di carattere xenofobo.

Detto in altri termini: la giusta critica della Lega Nord agli sprechi del denaro pub­blico che vi sono stati in Meridione non si accompagna ad un'analisi del perché ciò sia avvenuto e finisce per favorire quelle dinamiche e quegli interessi sociali che hanno creato e mantenuto questa situazione. È come per l'emigrazione: al problema economico-sociale, dello sviluppo ineguale tra le due sponde le Mediterraneo e l'A­frica sub sahariana, si risponde solo con una politica securitaria, con questurini, mili­tari e carceri, senza alcuna capacità di proporre politiche che vadano alla radice dei problemi, quindi con il risultato di non risolverli e di vedere il loro aggravarsi nel tempo[12].
 
 

Reti associative, di fiducia e capitale sociale

Noi siamo rappresentanti di quell’area sociale ed economica che generalmente si può indicare come “non profit”, costituita innanzi tutto e per la grandissima parte da associazioni e in una piccola parte, ma significativa dal punto di vista occupazionale, anche dalla cooperazione sociale, entrambe con marcati fini sociali. Ora, dal punto di vista del contributo che il Terzo settore può dare allo sviluppo del Meridione, occorre tenere presente che le nuove aree di sviluppo economico del nostro paese, negli ultimi 30 anni, non hanno preso il via da imprese con grandi investimenti di capitale fisso, che sono state al centro del tentativo di sviluppo economico del Sud tra gli anni cinquanta e settanta. Queste nuove zone di sviluppo si sono basate sui distretti industriali, costituiti da una serie di imprese di medio-piccole dimensioni che in un dato territorio cooperano specializzandosi ciascuna nelle diverse fasi della produzione di una medesima gamma di prodotti (il distretto della ceramica a Modena, della sedia in Friuli, degli occhiali nel bellunese, delle scarpe tra Marche e Abruzzo, ecc.). Non a caso le regioni del nostro paese che hanno avuto questo tipo di sviluppo spesso sono state regioni che avevano un tessuto associativo rilevante, che non solo ha favorito la cooperazione, ma ha anche indirizzato l'azione delle istituzioni pubbliche locali.

Lo sviluppo economico italiano degli ultimi anni ci dice che per svilupparsi dal pun­to di vista economico, anche nell’ambito dell’economia di mercato, è necessario uno sviluppo che potremmo dire civile, o, come si usa dire oggi, è necessaria la presenza di capitale sociale: se cioè non c’è un certo grado di sviluppo non tanto di carattere economico, ma proprio di relazioni sociali, è difficile che la stessa economia di mer­cato si sviluppi.

Tra quanti hanno contribuito ad elaborare il concetto di capitale sociale c’è un socio­logo americano, R. Putnam[13], che ha studiato la nascita e lo sviluppo delle Regioni a statuto ordinario in Italia, che fa in proposito un esempio molto simpatico sul sistema bancario, o creditizio. 

Il sistema creditizio è nato in Italia, in particolare nelle repubbliche marinare e in Toscana. Non va dimenticato che una tecnica fondamentale di contabilità come la partita doppia è stata inventata a Prato in quel periodo. Del resto il sistema capitalistico ha visto i suoi albori proprio da noi. Ebbene, studiando le differenze tra le Regioni italiane, Putnam rileva che quelle meglio funzionanti sono quelle con un’alta tradizione civica, appartenenti in particolare a quella parte d'Italia che nel medio evo vide la nascita dei comuni; ed è proprio in questa stessa area che è nato il sistema creditizio, che si chiama così perché dare credito significa dare fiducia. I mercanti veneziani che dovevano attraversare il mediterraneo - andavano a Bisanzio, la porta dell’oriente sul mediterraneo, a fare acquisti - non ci andavano portando con sé il denaro, allora coniato sempre con metalli preziosi, ma portavano con sé una lettera di credito; avevano cioè una carta scritta da un banchiere a Venezia e quando arrivava­no a destinazione c’era un corrispondente locale che dava loro il denaro contante o garantiva comunque l’effettivo pagamento al venditore. Se non c’era un rapporto di fiducia, un “dar credito” il mercato non sarebbe potuto svilupparsi e tanto meno esi­stere; quindi, la stessa economia di mercato non funziona se non c’è alla base senso civico, reciproca fiducia, una disponibilità a cooperare e non a guardarsi dagli, o a non fidarsi degli, altri. 
 
 

Cenni sulla presenza e ruolo del Terzo settore nella realtà meridionale e sulle sue possibili interazioni con le economie affermatesi in questi anni.

Il non profit, il Terzo settore, l’associazionismo e il volontariato, sono anche questo: un elemento di regolazione nel funzionamento della società di mercato e, a questo punto, il ragionamento deve tornare alla società meridionale, alle sue caratteristiche, per capire da dove partire per favorire una dinamica di sviluppo della stessa società meridionale. Mario Alcaro ha ragionato sugli elementi positivi che sono presenti nella società meridionale e che certamente hanno, a mio avviso, una relazione con il nostro mondo. Così è per la cultura del dono o dell’accoglienza propria della società meridionale, E’ proprio da questi elementi che bisogna partire se si vuole pensare ad uno sviluppo del nostro mondo. Ma come si può lavorare per sviluppare il Terzo set­tore ed il volontariato nella realtà meridionale, come ci si può dare, in questo senso, degli obiettivi credibili?

Quella del non profit, del Terzo settore, è una realtà piuttosto complessa, è intera­mente caratterizzata dall’essere un’economia non con fini di profitto: elenchiamone sinteticamente le differenze di fondo dalla prima. In un’economia profit il fine è il profitto, gli oggetti prodotti in quanto beni d'uso hanno meno rilevanza, conta il loro valore di scambio che determina le entrate e l’entità del profitto: una fabbrica con 2.000 lavoratori può esser chiusa licenziando tutti quando non dovesse creare profitto. Lo scopo dell’ente non profit non è il profitto ma l’oggetto stesso della produzione, il bene o il servizio che s’intende produrre, il suo valore d’uso e non quello di scambio, qui sta la differenza di fondo. 

Gli enti non profit in Italia sono svariati. Si va dalle cooperative - nel nostro caso si tratta delle cooperativa sociali - che potremmo chiamare enti non profit di mercato, perché stanno sul mercato. Poi c’è il volontariato che non sta neanche nell’economia di mercato, essendo una forma di economia basata sul dono, sulla prestazione gratui­ta da parte dei soci, il che permette di fare,tra l’altroriequilibrio sociale.perché a differenza del mercato, che si rivolge al potere di acquisto delle persone, il volonta­riatopuò, basandosi sul dono, rivolgersi anche a coloro che non hanno denaro da spendere, fornendo un servizio anche a coloro che non hanno reddito. Può cioè svol­gere la stessa funzione che solo l’economia pubblica è in grado di svolgere, perché quest’ultima si rivolge alle persone come soggetti di diritto, tutti uguali davanti alla legge nello Stato democratico, e perché lo Stato ha un'autorità e una forza che sovra­sta quella dei singoli, un leviatano che può disporre, sulla base di regole scelte a maggioranza, anche della libertà degli individui, sino alla loro vita, ancora in molte parti del mondo. Quindi lo Stato può permettersi di prendere da chi ha più reddito e ridistribuire a chi ne ha meno, o in forma di servizi pubblici o con trasferimenti in denaro, sulla base del principio di tassazione progressiva, sanciti ad es. dalla nostra Costituzione[14] e dei diritti sociali dei cittadini[15], è in altri termini il welfare state

Il volontariato quindi può avere la stessa funzione dell'economia pubblica, ma mentre questa si basa sulla forza e l'autorità dello Stato ed è per sua natura obbligatoria e non ce se ne può sottrarre se non espatriando e mettendosi sotto la protezione di un altro Stato, nel caso del volontariato si tratta di una libera scelta, e la distinzione non è da poco. Tenuto conto delle loro caratteristiche le organizzazioni del Terzo settore e di volontariato non solo sono alleati possibili ed importanti di un’economia pubblica che lavori verso prospettive di giustizia, equità ed efficienza, ne sono anzi una delle precondizioni. 

Il volontariato e l’associazionismo creano, inoltre, relazioni umane, creano comunità, come avviene per il lavoro di cura che si svolge nell’ambito della vita familiare, che non passa attraverso il mercato, e senza il quale non esisterebbe una comunità. Così come tutte le cose che riguardano i rapporti tra persone, le cose più pregiate e più importanti, normalmente non passano attraverso il mercato: l’educazione, gli affetti, le religioni, le filosofie, l’amore non passano attraverso il mercato; quando, infatti, ciò avviene diventano un’altra cosa. Il mercato vale per scambiare beni e oggetti, va molto meno bene per curare i rapporti tra le persone. 

Insomma, «il punto che preme ribadire è che qui si sta parlando di un altro attore politico collettivo: il Terzo settore, se mantiene la sua coerenza di soggetto altro dalla logica di mercato e da quella del politico-statuale, può essere perno di una grande trasformazione così del mercato che dello stato. E’ pur vero che in questi anni il volontariato e le grandi associazioni del Terzo settore si sono adagiati in rapporti spesso di collateralismo con la politica tradizionale. Questo, comunque, non ha impedito loro di partecipare ad importanti momenti di innovazione come quello costituito dall’approvazione della modifica costituzionale contenuta con l’art. 118»[16].

Le sfide che aspettano il Terzo settore sono però ora ben più ardue della modifica di un articolo della Costituzione, o dell'ottenimento di una legislazione che lo riguarda e lo legittima, questa è una fase che sostanzialmente si va chiudendo. A partire dalla fine degli anni '70 si è andato formando un nuovo corpo legislativo basato sulla cittadinanza attiva: prima le leggi sul volontariato internazionale, la protezione civile e l'obiezione di coscienza, poi quelle sulla cooperazione allo sviluppo, la legge quadro per il volontariato, quella sulla cooperazione sociale, quella sulla promozione sociale,  la nuova legge sull'assistenza e infine la modifica dell'art. 118 della costituzione nel 2001.

Insomma, il Terzo settore si è legittimato, il problema è ora quello di essere effettivamente un soggetto sociale e politico che sa fare le proprie scelte di fronte ai principali problemi a livello internazionale e nazionale.

Tra questi la questione meridionale è la principale questione nazionale, rispetto alla quale se il Terzo settore vuole avere un ruolo deve avere una propria politica. Il senso di questi incontri è di trovare possibili risposte a come e su quali linee il mondo del volontariato e del Terzo settore, nel porsi degli obiettivi di sviluppo e rinnovamento della realtà meridionale, deve lavorare.

 

[1] La Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, costituita in Roma il 2 dicembre 1946, pri­mo Presidente fu il Ministro socialista dell’industria Rodolfo Moranti. Ha per statuto lo scopo di promuovere, nello spi­rito di una efficiente solidarietà nazionale e con una visione unitaria, lo studio delle condizioni economiche del Mezzo­giorno d'Italia, al fine di proporre concreti programmi d'azione e opere intesi a creare e a sviluppare le attività industriali più rispondenti alle esigenze accertate.
[2] Santi Romano (Palermo: 1875–1947). Laureato a Palermo insegnò nelle Università di Modena, Camerino, Pisa, Mila­no, Roma. È noto per essere stato il principale fautore, in Italia, della teoria istituzionistica del diritto.
[3] Margaret Thatcher, Primo ministro inglese dal 1979 al 1990. Ronald Reagan, Presidente Usa dal 1981 al 1989. Con loro si affermano nel mondo le politiche neoliberiste.
[4] Un’impostazione che prima ha caratterizzato il miracolo economico giapponese, ma allora eravamo ancora nel keyne­sismo imperante, poi il bum economico dei Quattro dragoni (Corea del Sud, Taiwan, Singapore e Hong Kong) e infine lo sviluppo economico dei due colossi asiatici, Cina e India.
[5] Espressione coniata nel 1989 dall'economista John Williamson per indicare le 10 direttive di politica economica pa­trocinate dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, entrambi aventi sede a Washington. L'espressio­ne ha finito per indicare un insieme di politiche volte ad esaltare il ruolo del libero mercato a discapito dell'intervento dei governi nell'economia di un paese, secondo i dettami dell'orientamento neoliberista.
[6] Si veda in proposito G. Arrighi, Adamo Smith a Pechino, Genealogie del ventunesimo secolo, Milano 2007. Arrighi, che ora insegna a Baltimora alla Johns Hopkins University, è stato docente negli anni passati all'Università della Calabria.
[7] Gaetano Arfé (Somma Vesuviana 1925 – Napoli 2007), politico, giornalista e storico.
[8] Presidente dal 1974 al 1991 dell'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno (Svimez), P. Saraceno (Morbegno 1903 – Roma 1991) è stato docente all'Università Cattolica di Milano e in quella di Venezia. Consulente del conterraneo ministro Ezio Vanoni e di altri ministri democristiani, sostenitore della programmazione tramite l'IRI dove fu assunto nel 1933, influenzò la politica di intervento nel Mezzogiorno e fu tra i più convinti sostenitori della costitu­zione della Cassa del Mezzogiorno.
[9] Manlio Rossi Doria, Scritti sul mezzogiorno, Napoli 2003, p. 156.
[10] I decreti Gullo sono sei, emanati tra ottobre 1944 - aprile 1945. Fausto Gullo (Catanzaro 1887 - Spezzano Piccolo 1974), entrato molto giovane nel PSI, nel 1907 divenne consigliere comunale di Spezzano Piccolo (Cosenza), nel dopoguerra, sostenne la Frazione Comunista Astensionista, guidata da Amedeo Bordiga, nell’aprile del 44 viene nominato ministro dell’Agricoltura nel secondo gabinetto Badoglio. Tra l’estate del ’44 e la primavera del ’45, Gullo emanò i decreti che costituivano solo una legislazione agraria preriformatrice. «Il primo riguarda il pagamento dei canoni di af­fitto in natura. Con esso viene riconosciuto all’affittuario un compenso per le maggiori spese colturali pari alla metà del prezzo del grano e dell’orzo da trattenersi al momento del conferimento all’ammasso. Il secondo decreto riguarda la disciplina dei contratti di mezzadria impropria, colonia parziaria e compartecipazione. Con esso vengono modificate le quote di riparto dei prodotti e degli utili ricavati dal fondo assegnando un quinto a favore del concedente e quattro quinti al colono o compartecipe. Se si considera che precedentemente la ripartizione assegnava soltanto la metà, un terzo o anche meno al colono, ci si può immaginare il rivolgimento che questo decreto determinava nella contrattazione agraria nel mezzogiorno. Contro la minaccia dei concedenti di licenziamento nei confronti degli affittuari e dei coloni che applicavano i due precedenti decreti venne emanato, successivamente, quello della proroga dei contratti agrari che li garantiva da ogni disdetta. Altri due decreti importanti ma scarsamente applicati sono stati: quello sul  “divieto di subaffitto dei fondi rustici” e quello sugli “usi civici”. Fra i sei decreti Gullo il  più importante fu quello sulle “terre incolte”. Fausto Gullo, con questo decreto, rifacendosi alla necessità della produzione nazionale, concede in coltura alle Associazioni dei contadini,  regolarmente costituite in cooperative o altri Enti, i terreni di proprietà privata o di Enti pubblici che risultino non coltivati o insufficientemente coltivati. L’opposizione degli agrari all’applicazione dei decreti fu dura ma essa stessa contribuì ad estendere le lotte e il movimento. Per le organizzazioni contadine, i decreti furono strumenti di  lotta formidabili e, seppure con tutti i limiti congiunturali, aprirono la prospettiva di tempi nuovi che la caduta del fascismo e la vittoria delle forze democratiche facevano ritenere vicini.» (Dal discorso tenuto dal Presidente regionale della Cia Calabria, Giuseppe Mangone il 30 ottobre 2003 convegno, svoltosi a Melissa nell’anniversario della strage omonima).
[11] Si veda ad es. F. Cassano con Il pensiero meridiano, o M. Alcaro con Sull’identità meridionale, o G. Viesti Abolire il Mezzogiorno.
[12] Esemplare è il caso della crescita della popolazione carceraria Usa, tutto sembra essere  iniziato con l'era Reagan: nel 1980 i detenuti erano solo 318 mila, ora sono circa 2,3. Una lotta alla criminalità, come quella al terrorismo fatta solo di misure repressive e militari non sembra essere in grado di dare soluzione al problema. I dati che seguono sono tratti dal rapporto sulle carceri Usa del Pew Center on the States (http://www.pewcenteronthestates.org/). Gli Stati Uniti hanno una popolazione carceraria superiore a quella di qualsiasi altro Paese al mondo che è arri­vata a un totale di circa 2,3 milioni di carcerati. Nel 2007 è cresciuta di 25 mila detenuti,di cui 723 mila persone si tro­vano in prigioni locali, e quassi 1,6 milioni nelle rimanenti. Con una popolazione adulta Usa di circa 230 milioni, questo significa che un americano adulto su 99 è dietro le sbarre. Facendo un confronto con altri paesi: la Cina, accusata da mezzo mondo di non rispettare i diritti umani, ha 1,5 milioni di carcerati, ma con 1,3 miliardi di abitanti, 119 ogni 100.000 abitanti. In Giappone nel 2000 vi erano solo 47 detenuti per 100.000 abitanti; in Norvegia 56; in Francia 80; in Italia 94; in Germania 97. Cifre paragonabili a quelle Usa si trovano solo in Russia che conta 890 mila detenuti su 146 milioni di abitanti, 607 ogni 100.000 abitanti;  in Sudafrica sono 341, in Iran di 222. Monumentale anche l'entità della spesa carceraria, che aumenta a un ritmo sei volte maggiore della spesa per l'istruzione secondaria, per un totale di 55 miliardi di dollari l'anno. Secondo il Pew Center, l'aumento dei carcerati non rispecchia un aumento dei crimini ma solo un inasprimento generalizzato delle pene. Notizie pubblicate anche su: la Repubblicadel 29/02/2008 e il il manifesto del 1.3.08) 
[13] La Tradizione civica delle regioni italiane, di Putnam Robert D, Mondadori 1996.
[14] Art. 53. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tribu­tario è informato a criteri di progressività.
[15] Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la li­bertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva par­tecipazione di tut­ti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. 
[16]Giuseppe Cotturri, Cittadini e riforma della politica, nella presente pubblicazione.
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Cittadini e riforma della politica
di Giuseppe Cotturri
 

 

1. La necessità del cambiamento

In Italia il movimento del volontariato nasce negli anni ’70, da una riflessione di un gruppo ristretto di persone del mondo cattolico.

Tale gruppo iniziò ad interrogarsi se la tensione partecipativa, che negli anni ’70 in Italia si manifestava in tanti settori  - scuola,  quartieri, fabbriche, parrocchie - aveva in sé le caratteristiche di una presenza sociale innovativa: capace, cioè, di accompagnare le politiche pubbliche senza delegare tutto, e quindi capace di arricchire la vita pubblica con una presenza, accanto alle istituzioni, di un tipo di cittadinanza che per spirito di gratuità, missione politica solidale, voglia di tutelare gli ultimi e i più deboli, potesse diventare attore decisivo dello sviluppo inteso come qualità della convivenza, e non mera crescita quantitativa.

Alla fine del 1975 a Napoli trecento persone giunte da varie regioni italiane si riunirono, pagandosi il viaggio e le spese, e costituirono quello che oggi potremmo definire l’embrione di una presenza sociale innovativa. Nel ’78 i tanti gruppi scaturiti da quell’esperienza si sono poi coordinati in un movimento chiamato Mo.v.i, (movimento del volontariato italiano), che è un cartello di secondo livello. Da allora la spinta alla crescita è stata vièppiù rilevante ed accompagnata dalla capacità tipica del mondo cattolico di produrre strumenti per politiche sociali. L’idea di intervenire sulle banche, ad esempio, nasce da questa spinta proveniente dal mondo cattolico, e viene raccolta più tardi, agli inizi degli anni ’90, dall’allora ministro Amato con il provvedimento che impone la gestione societaria del sistema bancario anche alle ex-casse di risparmio, e obbliga alla creazione di fondazioni bancarie le quali devono destinare al volontariato una quota dei loro fondi.

Le banche sono il massimo strumento per favorire la crescita economica e finanziaria di nuovi soggetti. Avere pensato all’opportunità di vincolare tali istituti al finanziamento della società civile organizzata ha permesso di dare vita a concrete politiche di sviluppo del volontariato. Pensiamo al disegno legislativo di Lipari, a fondazioni come la Zancan, al progetto di Maria Eletta Martini con il suo Centro per il Volontariato a Lucca, alla fondazione Fivol, che deve la sua istituzione ad un banchiere cattolico, Pellegrino Capaldo (che vincolò per tale fondazione credo 15 miliardi, con un gettito annuo – dati gli interessi del tempo - di circa 1 miliardo e mezzo).

Questa politica ha favorito la formazione di nuovi soggetti sociali, capaci di intervenire nel processo decisionale, ma soprattutto di orientare le politiche pubbliche a fini sociali, e non a fini strettamente economici, o di profitto dei gruppi più forti.

Il volontariato ha così fatto da battistrada allo sviluppo di un “Terzo settore” – né stato né mercato - dove cooperative, associazioni di promozione sociale ed altre organizzazioni, comunque non lucrative, e di riconosciuta utilità sociale (movimenti civici di advocacy, centri studi, fondazioni, centri di servizio) si sono via via costituite, adombrando figure di nuova soggettività sociale e di politica diffusa, che richiederanno più tardi loro forme di coordinamento e espressione (la nascita del Forum del Terzo settore è del ’94).

Nel decennio di crisi dei partiti e fine della “prima Repubblica” per sforzo convergente delle varie forze politiche prese l’avvio una legislazione di promozione e sostegno di queste realtà di Terzo settore. Il volontariato nel ’91 conquista la prima legge, n.266, e nello stesso anno le cooperative sociali hanno la 381.  A seguire vengono promulgate altre leggi a tutela delle specificità dei vari soggetti o leggi trasversali di favore, come la legge sulle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (onlus, del ‘94) che introduce vantaggi fiscali. Si discute ora se questa legislazione, con le sue specificità, non stia creando una sorta di gabbia dei settori (concepiti “a canne d’organo” non comunicanti), e quindi non esasperi le difformità, invece di favorire evoluzioni verso forme integrate di tutele e azioni. Da ciò anche è nata una tendenza al riordino, mediante idee di riforma anche del codice civile (c’è una proposta dell’ultimo governo Prodi, con la commissione presieduta dall’on. Pinza).

Nel primo decennio di leggi promozionali le associazioni dunque non concepirono e non ricercarono l’affermazione di un principio generale dell’ordinamento. Si dovrà attendere il 2001, quando con la revisione del Titolo V della costituzione  si scrisse l’articolo 118, che al quarto comma dice: “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”. E’ l’affermazione del principio cosiddetto di “sussidiarietà orizzontale”, che una delegazione del Forum del Terzo settore e del cartello “Parte civile” aveva formulato per la riforma della seconda parte della Costituzione (1997, Commissione Bicamerale presieduta da D’Alema) e che in quell’occasione non era stata recepita.

Da sottolineare la differenza fondamentale di prospettiva, tra leggi di settore e nuovo principio costituzionale. Le leggi promuovono e favoriscono le organizzazioni sociali per se stesse. La costituzione mette al centro la capacità di tutti i cittadini, anche da soli, di realizzare l’interesse generale e “favorisce” le concrete attività dirette a questo. Il primo approccio indica di sostenere le organizzazioni, quindi magari senza volerlo tuttavia evoca spiriti “corporativi” (e infatti i diversi enti sono in lotta tra loro per accedere a risorse pubbliche e fanno ciascuno del proprio profilo identitario causa di giustificazione del sostegno privilegiato). Il secondo approccio è mirato a cogliere e sostenere una data attività, da chiunque realizzata: poiché si bada al risultato concreto possiamo dire che è premiato l’effetto solidaristico. C’è una visione di “società futura”, cui tutti possono contribuire secondo una “etica del risultato”: è il concreto vantaggio sociale, se e quando effettivamente realizzato, che  motiva il “favore” che la Costituzione impone a carico di ogni tipo di istituzione territoriale di governo.

L’indirizzo costituzionale qualifica e reinterpreta varie politiche di sostegno che da alcuni anni si sono poste in essere. Penso alla costituzione dei centri di servizio, alla centralità dei momenti di formazione, alla sperimentazione – che è in crescita – di esperienze partecipative particolari, penso al volontariato nel servizio civile che trasforma l’obbligo di difesa della patria in servizio volontario su progetti di organizzazioni civili con scopi di sviluppo civile per l’Italia.

La prospettiva teorica e politica, di cui stiamo parlando, indica che il motore del processo storico-sociale non stia esclusivamente nel conflitto tra chi ha i mezzi di produzione e chi vende la forza lavoro. Le società complesse sono connotate da relazioni multiple e spesso ambivalenti tra un numero assai allargato di protagonisti. Il cambiamento si gioca in una serie di relazioni tra soggetti che alternano critiche e spinte oppositive (senza porsi mai come antagoniste) a concreta capacità di cooperazione e partecipazione in un contesto di governance.

Da questo punto di vista i movimenti delle classi lavoratrici alle origini del capitalismo contemporaneo erano imperniati su contadini e operai.
Quei soggetti crebbero e si sono strutturati in un tempo di conflitti sociali di estrema asprezza ( ci troviamo vicino a Melissa, che fu luogo di un eccidio di emarginati che volevano poter lavorare la terra demaniale, ma si possono rievocare  la strage di Andria, l’occupazione delle terre nel bitontino, o a Brindisi la distruzione dei raccolti, perché il patronato non voleva riconoscere un aumento di salario, ecc.), determinati da condizioni di assoluta povertà e indigenza. Non sorprende che per quei soggetti il centro della questione fosse la crescita economica; ovvero: produrre di più e redistribuire con maggiore giustizia sociale la ricchezza prodotta con fatica di braccia. Oggi quello sviluppo, sorretto da consumismo individualistico di massa e continuo allargamento dei mercati, mostra il rovescio, mostra effetti forse imprevisti e comunque indesiderati: montagne ingestibili di rifiuti – molti tossici e indistruttibili – danni crescenti all’ambiente, alterazione degli equilibri naturali, riduzione di risorse non rinnovabili, riscaldamento del pianeta.

Ora ovunque nel mondo si pensa agli aspetti qualitativi del consumo, alla possibilità del riuso, del restauro, della riduzione di produzioni invasive. Ma resta prevalente una incultura diffusa: governi e opinioni di massa ancor oggi pensano allo sviluppo solo in termini quantitativi ed economici tradizionali (produrre incrementi materiali di beni di consumo). Nel mondo il modello di consumo senza responsabilità verso le nuove generazioni sta distruggendo il pianeta e distrugge la ricchezza dopo averla prodotta.

L’interrogazione cruciale oggi riguarda la capacità di rinnovamento e cambiamento da parte di soggetti politici e sociali avvertiti di tutto questo. Nella capacità di porre limiti allo sviluppo, di indicare uno sviluppo sostenibile e un’equa distribuzione di prodotti e ricchezze si gioca il futuro comune.
 

2. La parabola dello sviluppo europeo

Le forze che hanno guidato lo sviluppo industriale e la crescita del PIL, nel nostro paese come negli altri, hanno realizzato effettivo aumento del reddito pro-capite e diffusione del welfare. L’arresto di quella tendenza scaturisce tuttavia da limiti intrinseci del modello di sviluppo: limiti che peraltro s’erano manifestati alla fine degli anni ’60 in tutto il mondo. Alle classi dirigenti si deve imputare quindi di non aver saputo o voluto correggere per tempo.

La contestazione delle nuove generazioni in Giappone, in America, in Europa, nei Paesi Socialisti, chiese a gran voce un cambiamento degli obiettivi concreti di governo dei rispettivi paesi: nei Paesi Socialisti i manifestanti volevano un po’ più di benessere e un po’ più di democrazia; nei Paesi avanzati dell’Occidente i giovani non volevano la guerra del Vietnam, e volevano partecipare di più alle scelte pubbliche, volevano anche autogestire il proprio corso formativo.  L’affacciarsi di generazioni nate nel dopoguerra dunque, non partecipi dei due grandi conflitti mondiali e estranee alla logica della Guerra Fredda spingeva ovunque per una società migliore.

Le risposte a quelle spinte furono di chiusura. I sovietici mandarono i carri armati nelle piazze. Le élites dominanti nel mondo capitalistico a metà degli anni ’70, riunite in Commissione Trilaterale (USA, Europa, Giappone), risposero che il difetto delle democrazie era nel loro crescente sovraccarico di domande e che occorreva selezionare e mettere ordine nelle domande sociali tramite governi decisionisti.  La linea della riduzione della spesa pubblica sociale, dell’inizio dello smantellamento degli Stati protettivi, nacque in quel decennio. A seguito della guerra in Vietnam, gli Stati Uniti chiesero di ripartirne i costi con gli alleati più ricchi, giapponesi e tedeschi, ma incontrarono un rifiuto. Decisero allora di rafforzarsi unilateralmente,  rompendo gli accordi di Bretton-Woods sui criteri di cambio delle monete nazionali: la copertura aurea delle banche nazionali non ebbe più valore, il dollaro fu imposto come unità di misura delle altre monete, così le difficoltà economiche americane furono scaricate sulle monete degli alleati. Ebbe inizio un periodo di tensioni tra USA e Europa: i rispettivi interessi in prospettiva si sarebbero divaricati.

Le classi dirigenti europee, che con la pace e con l’unificazione del mercato europeo avevano promosso la crescita dei loro paesi, si trovarono così repentinamente dinanzi a crescenti tensioni nei confronti dell’alleato principale, senza che l’unificazione politica tra di esse avesse fatto alcun reale progresso e viceversa con un governo americano più determinato che mai a far valere il proprio unilateralismo e la propria potenza economico-militare. Questa vicenda s’è protratta per quasi due decenni. Quando poi è crollata l’Urss e ha avuto termine l’equilibrio dei “blocchi”, la superpotenza americana s’è trovata sola alla testa di un processo di unificazione del mercato mondiale, che in taluni casi non ha esitato a sorreggere con le armi.

I paesi europei a questo punto, pur tanto cresciuti economicamente, si sono scoperti deboli, senza possibilità di influire granché nella dimensione mondiale. La Cina è divenuta un gigante, altri paesi come l’India e il Brasile emergono con forza, mentre le economie europee stanno decrescendo. Si perdono i livelli di sicurezza conquistati, i livelli dei consumi, i livelli di ricchezza prodotta e utilizzabile per la vita civile. Il mondo sta economicamente crescendo altrove e l’Europa arranca.
 

3. La deriva corporativa dei partiti in Italia

E’ in questo quadro che la politica degli stati-nazione europei scopre di non avere più capacità di guidare lo sviluppo. La manovra dei governi sulle risorse di bilancio è limitata, la direzione politica sull’economia e sulla società può poco. I tagli al bilancio riducono sicurezze e diritti nei paesi in restrizione di bilancio. I partiti politici sono irriconoscibili: organizzatori un tempo di straordinaria partecipazione sociale, vivono la crisi come perdita di ruolo dirigente e, correlativamente, perdita di fiducia tra i cittadini. Gli apparati burocratici si autotutelano corporativamente: in Italia fin dalla metà del decennio ’80 il ceto politico si arrocca, le figure più indipendenti sono emarginate, la occupazione di cariche pubbliche diviene riserva di corporazioni chiuse che si riproducono per cooptazione.

C’era nel nostro paese un terreno già scavato per questo tipo di riproduzione allargata del ceto politico. Le forme partecipative degli anni Settanta erano divenute presto terreno per carriere nei partiti, la presenza sociale più larga era rifluita e molta parte di quel riflusso fu opera appunto di una restaurazione del “sistema dei partiti”. I deputati regionali duplicarono le mille figure di deputati nazionali, privilegi e retribuzioni furono parificati. Anche i consigli di circoscrizione delle città maggiori dettero luogo a “gettoni presenza” consistenti: insomma una professione politica aveva ormai durature e consistenti garanzie di permanenza. Mentre altri lavori erano a rischio o in decisa restrizione. Negli anni in cui altri paesi furono sotto pressione per la riduzione di spese pubbliche di ogni genere, in Italia i costi della politica sono stati in espansione e, al finanziamento pubblico, si cominciò ad affiancare sempre più sistematicamente un “prelievo fiscale” illegale a favore dei partiti. Tangentopoli divenne “sistema” negli anni Ottanta, e la rivolta morale dei primi dei Novanta non è valsa a stroncare tale pratica. Più agguerrite che mai, le cordate di affari estortivi della politica continuano ancora ai nostri giorni.

Ma non è la corruzione il solo aspetto: c’è una deriva strutturale, la politica riesce a moltiplicare sistematicamente i “posti da spartire”. L’espediente era noto già ai tempi del “manuale Cancelli” (cioè di quel prontuario redatto da un ragioniere per la DC, che soppesando i posti da assegnare aveva fatto un’arte della spartizione di cariche pubbliche tra partiti e tra correnti di partito). Se non tutti i pretendenti erano soddisfatti, si creava un nuovo posto di vice (remunerato naturalmente), si allargava il numero dei consiglieri di amministrazione da nominare negli enti e nelle aziende pubbliche, i consigli regionali hanno aumentato di decine il numero dei propri componenti, ecc.

A fronte di questa crescita autoreferenziale del sistema delle cariche pubbliche elettive (ora: 179.485) o di nomina (i consulenti sono 159.000 circa, i nominati in consigli di amministrazione sono di più, ma non è disponibile un conto completo) c’è poi la spesa pubblica per servizi sociali – sempre meno erogati da apparati pubblici - che può essere amministrata con “occhio di riguardo”. La grande torta, dagli anni ’80, riguarda il trasferimento alle regioni delle enormi spese per la tutela del diritto alla salute dei cittadini: interi comparti di potere pubblico appaiono ora inquinati dall’intreccio di interessi anche illeciti che s’è strutturato attorno a questa inesauribile fonte di denaro e potere (assunzioni, convenzioni con privati, carriere mediche e di managers).

Se si vuole un esempio, si pensi al caso Mastella: un’intera famiglia dedita al controllo di questa fetta di potere nella propria regione.

 

4. I cittadini attivi risorsa di buon governo

Qual è la risorsa che può avviare l’uscita da tutto questo? Credo che la principale speranza sia riposta in quei cittadini, che da 20-30 anni anche nel nostro paese si sono rimboccati le maniche e intervengono in vari settori per la formazione o difesa di beni comuni. Tutta questa cura della società, che smette di allinearsi dietro i politici, ma si auto-organizza per realizzare attività utili alla comunità, ha posto le basi per un cambiamento.

La amministrazione pubblica, dinanzi a così tante e sempre crescenti richieste, non può fronteggiare tutti i problemi. Occorre che la stessa società civile si impegni per quel che può a interventi diretti. Si parla, da parte della moderna scienza amministrativa, di amministrazione condivisa. Il potere di governo si deve avvicinare ai cittadini e questi possono istituire utili collaborazioni con i governi locali. E’ questo in fondo quello che s’è deciso con la revisione costituzionale del 2001, di cui s’è già fatto cenno. L’articolo 118 contiene il principio dell’avvicinamento del potere di governo nel territorio, dando centralità ai Comuni, e sostiene il loro ruolo con la sussidarietà verticale, l’aiuto cioè delle istituzioni di più alto livello. Il dispositivo poi è ulteriormente rafforzato con la valorizzazione, ai rispettivi livelli territoriali di governo, delle autonome iniziative dei cittadini, quando dirette alla soddisfazione di interessi generali. E’ nel proprio territorio infatti che la cittadinanza attiva massimizza le sue capacità di intervento. E cittadinanza attiva è categoria costituzionale inclusiva: volontariato, cooperazione sociale, associazioni di promozione sociale sono altrettante forme concrete di società che si autorganizza e gestisce in autonomia il proprio contributo alla governance complessiva.

Siamo tornati così ai temi da cui è partito il discorso, alle culture della solidarietà e ai soggetti che le esprimono. Si potrebbero fare tanti esempi, si potrebbero raccontare tante esperienze. Ma il punto che preme ribadire è che qui si sta parlando di un altro attore politico collettivo: il Terzo settore, se mantiene la sua coerenza di soggetto altro dalla logica di mercato e da quella del politico-statuale, può essere perno di una grande trasformazione così del mercato che dello stato. E’ pur vero che in questi anni il volontariato e le grandi associazioni del Terzo settore si sono adagiati in rapporti spesso di collateralismo con la politica tradizionale. Questo, comunque, non ha impedito loro di partecipare ad importanti momenti di innovazione come quello costituito dall’approvazione della modifica costituzionale contenuta con l’art. 118.

Penso che in un futuro non lontano si ripeteranno le condizioni per altre battaglie per l’innovazione della politica e delle forme di rappresentanza. Saranno occasioni per la realizzazione di momenti di potere diffuso ed autonomia di azione da parte della società civile organizzata, che avrà voce e forza per realizzare progetti di accrescimento dei beni comuni e di ampliamento dei diritti di cittadinanza.
 

 

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